Un viaggio tra arte, ambizione e rinascita che racconta l’anima più autentica di un secolo in cerca di sé
Milano, 1926. Una sala gremita, il respiro sospeso di un pubblico che attende. Sulle pareti, figure monumentali, corpi solidi, linee severe, silenzi carichi di potenza. Non è un revival, è una sfida: può la modernità parlare la lingua degli antichi? Così nasce – o rinasce – il Novecento Italiano, un momento irripetibile in cui l’arte italiana cercò di rifondare la classicità dopo la tempesta della guerra. Tra ambizioni imperiali, ricerca spirituale e tensione estetica, fu il movimento che – più di altri – cristallizzò la contraddizione del secolo breve.
- Le origini e la scintilla: la necessità di un ritorno
- Milano, la città laboratorio del nuovo classicismo
- Gli artisti del mito e della misura
- Arte e politica: un dialogo teso e ambiguo
- Oltre le rovine: l’eredità del Novecento Italiano
Le origini e la scintilla: la necessità di un ritorno
È impossibile comprendere il Novecento Italiano senza sentire la ferita aperta della Prima guerra mondiale. L’Europa, spezzata ma inquieta, cerca di ritrovare un centro. L’Italia, giovane nazione, sospesa tra slancio futurista e nostalgia per Roma antica, teme di essersi smarrita. Come riconciliare la velocità del progresso con la saggezza della tradizione? Da questa tensione nasce un’idea: rimettere ordine nel caos delle avanguardie, dare una forma umana al turbine della modernità.
Nel 1922, anno simbolico che segna anche l’ascesa del fascismo, la critica milanese Margherita Sarfatti – donna di cultura cosmopolita, intellettuale e mecenate – propone la creazione di un gruppo capace di incarnare lo spirito della nuova Italia. Lo chiama “Novecento Italiano”, un nome che è già dichiarazione di intenti: non un movimento di rottura, ma di rinascita. Vuole gli artisti uniti dall’idea di una pittura solida, chiara, armonica, degna degli antichi maestri ma calata nella contemporaneità.
La prima mostra ufficiale del gruppo, nel 1926, alla Permanente di Milano, sancisce quell’intuizione visionaria. Otto artisti, un manifesto estetico fatto di discipline, equilibrio e grandezza. La Sarfatti lo presenta come un movimento per guardare avanti tornando indietro. I giornali oscillano tra entusiasmo e scetticismo. Alcuni critici parlano di “accademismo travestito”. Altri, invece, intravedono una rinascita del sentimento classico, un modo nuovo per rappresentare l’uomo come misura del mondo.
Lo storico gruppo dei “Sette di Novecento” include nomi come Sironi, Funi, Marussig, Malerba, Dudreville, e Tosi – figure che rifuggono l’anarchia delle avanguardie e cercano una ridefinizione etica e plastica dell’arte italiana. Come testimonia il resoconto del Museo del Novecento di Milano, quelle esposizioni furono il laboratorio di una poetica che univa rigore formale e ambizione spirituale. L’arte diventava misura del tempo: ciò che resta quando la storia brucia.
Milano, la città laboratorio del nuovo classicismo
Milano, negli anni Venti, pulsa come un cuore elettrico. Le strade risuonano del clangore industriale, le vetrine riflettono un futuro di metallo e vetro, ma nei caffè serpeggia ancora il desiderio di bellezza misurata, di armonia. Qui, più che a Roma o a Firenze, la contraddizione tra passato e modernità diventa feconda. L’arte si fa specchio di una nazione che tenta di definire sé stessa.
Margherita Sarfatti, con la sua aura intellettuale e la sua vicinanza ai vertici politici, trasforma Milano in un laboratorio di stile e identità. Non è solo una questione estetica: è una visione. L’arte deve elevare l’uomo, restituirgli dignità, dargli ordine. Lo spiega spesso nei suoi scritti e nelle sue conferenze: “Il vero artista del Novecento non distrugge, costruisce. Non urla, ma scolpisce con la mente e con la mano la sua nuova classicità.”
I fondali urbani della città influenzano la forma stessa delle opere. Nelle tele di Sironi, le periferie industriali assumono un tono monumentale, le fabbriche si fanno templi, gli operai figure ieratiche. In Funi, invece, le madonne e le figure allegoriche si stagliano su spazi severi, quasi metafisici. C’è qualcosa di archetipico in questa ricerca: l’uomo tra la macchina e la pietra, tra l’invenzione e il mito.
Ma non tutti condividono questa visione. Nel fermento culturale milanese convivono altre correnti: il realismo lirico, il ritorno all’ordine europeo, le suggestioni di un espressionismo controllato. La città fa da crogiolo a un dialogo serrato, spesso polemico, tra passato e modernità. E in queste tensioni, si definisce – forse inconsapevolmente – il linguaggio visivo del periodo tra le due guerre.
Gli artisti del mito e della misura
Chi erano, dunque, i protagonisti di questa rinascita classicista? Uomini complessi, spesso contraddittori, uniti dall’intento di riscattare l’arte dalla dispersione delle avanguardie. Ognuno, però, con un tono, un respiro, un battito diverso. E tutti intrisi di quella solenne malinconia tipicamente italiana, dove luce e mistero si mescolano con naturalezza.
Mario Sironi è senza dubbio la figura più monumentale. Ex futurista, approda al Novecento con la forza di un titano che intuisce la fine di un’epoca. Le sue “composizioni murali” impongono un linguaggio severo, litico, quasi primitivo. Nelle sue figure di lavoratori, nelle madri dolenti, si avverte un’eco della scultura etrusca e romana. Sironi non dipinge uomini, ma simboli: sono i pilastri di una civiltà immaginata.
Achille Funi, invece, veste la classicità di eleganza e disciplina. I suoi “nudi” e le sue “allegorie” vibrano di un silenzio teatrale. La linea torna protagonista, la pittura si fa mestiere, il colore respira in larghe campiture di luce antica. Funi è, in un certo senso, l’interprete più puro del progetto sarfattiano: la classicità come salvezza estetica e morale.
Arturo Martini, infine, scultore della terra e della memoria, dà alla forma una sensualità arcaica. Le sue figure materne, i suoi angeli, i suoi dormienti non sono mai solo simboli: sono carni di terracotta, anime di pietra che raccontano l’amore e la fatica dell’essere umano. Martini è l’anello di congiunzione tra il mito e la modernità, tra la tragedia della storia e la bellezza del gesto.
Accanto a loro, Malerba, Sironi, Marussig, Campigli, Donghi, e tanti altri: ognuno porta nel Novecento la propria visione della classicità. Alcuni guardano a Piero della Francesca, altri all’arte romana, altri ancora alle geometrie metafisiche. Ma tutti condividono una stessa, ostinata domanda:
Come restare moderni nella terra dei classici?
- Mario Sironi: il “muralista” del mito contemporaneo
- Achille Funi: il sacerdote della misura
- Arturo Martini: la materia che si fa spirituale
- Ubaldo Oppi: il silenzio delle figure tra sacro e borghese
- Felice Casorati: la geometria come disciplina dell’anima
Arte e politica: un dialogo teso e ambiguo
Nessun capitolo del Novecento Italiano può essere compreso ignorando il rapporto con il potere. È questa la parte più controversa, la zona d’ombra che ancora oggi divide critici e storici. Il movimento, nato con ambizioni spirituali, divenne – almeno per un certo periodo – strumento di rappresentazione del regime fascista. La classicità, d’altronde, era linguaggio perfetto per chi voleva costruire miti di grandezza nazionale.
Sarfatti, figura moderna e intelligente, si trovò in bilico tra ideale estetico e implicazioni ideologiche. Le grandi esposizioni internazionali, le decorazioni pubbliche, i murali monumentali venivano presentati come testimonianze della “nuova arte italiana”, orgogliosa, disciplinata, eroica. L’arte diventava linguaggio politico, anche quando gli artisti la sognavano autonoma.
Sironi, più di altri, incarnò questo conflitto. Il suo “muralismo” creava una sintesi tra arte civile e spiritualità, ma fu spesso piegato alla retorica del tempo. Eppure, dietro le sue mura simboliche, si avverte sempre un dolore privato, un senso di sconfitta che esploderà negli anni Quaranta, quando il mondo crollerà di nuovo in guerra. Funi, Martini e altri, invece, cercheranno di mantenere una zona di autonomia, rivendicando un’arte che, sebbene pubblica, non si confonda mai con la propaganda.
Negli anni Trenta, il Novecento Italiano si evolve, si frammenta, si pluralizza. Alcuni artisti si avvicinano all’astrazione, altri al surrealismo, altri ancora cercano una spiritualità profonda alla ricerca del “nuovo umanesimo”. Quando nel 1937 la Sarfatti viene emarginata per motivi politici e personali, l’esperienza del gruppo si dissolve. Ma il segno resta. E resta la domanda che attraversa tutto il movimento:
L’arte può sopravvivere quando diventa strumento del potere?
Il trauma della Seconda guerra mondiale segnerà la fine di quel sogno classico. Ma anche nella disfatta, il Novecento Italiano conserva il merito di aver tentato l’impossibile: un’arte che si facesse corpo e idea, radice e visione, misura e vertigine.
Oltre le rovine: l’eredità del Novecento Italiano
Quando la polvere della storia si posa, ciò che resta del Novecento Italiano è molto più che un episodio. È una lezione di ambizione, di identità, di disciplina. In un’epoca ossessionata dalla novità, quegli artisti ebbero il coraggio di meditare sul tempo, di capire che la tradizione non era una gabbia ma un combustibile. La modernità, per loro, non poteva nascere senza memoria.
Oggi i loro quadri e le loro sculture raccontano una sfida morale: quella di costruire un linguaggio nazionale e universale al tempo stesso. Nei loro gesti c’è una nostalgia lucida, una bellezza razionale. I loro corpi, immobili e solenni, parlano ancora a un pubblico smarrito nella frammentarietà contemporanea. Ci chiedono di fermarci, di respirare, di contemplare.
Critici come Giulio Carlo Argan e Carlo Ragghianti, nei decenni successivi, riconobbero in quel movimento una delle premesse del neorealismo e del ritorno alla figura che caratterizzerà l’Italia del dopoguerra. Pur criticando l’ambiguità ideologica, ammisero che il rigore formale del Novecento aveva ricostruito le basi morali dell’arte italiana. Non si trattava più di imitare il passato, ma di appropriarsene per costruire il futuro.
Nel XXI secolo, quando tutto è frammento e simultaneità, l’energia del Novecento Italiano appare quasi rivoluzionaria. In un mondo visivo dominato dall’effimero, la ricerca di misura, proporzione e solennità acquista un valore inatteso. È come se, attraverso il tempo, tornassero a parlarci quelle figure statiche e monumentali, ricordandoci che la bellezza autentica non è mai moda, ma resistenza.
Il Novecento Italiano non fu un movimento facile, né puro. Fu attraversato da contraddizioni, da entusiasmi e delusioni, da grandezze e compromessi. Ma fu anche una stagione irripetibile in cui l’Italia tentò di rispondere al crollo della modernità con una misura tutta sua: un classicismo inquieto, tragico, vivo. E in quelle tele, in quei volti, in quei silenzi, forse, c’è ancora l’Italia che cercava di ricordarsi chi era.
Alla fine, forse, è questo ciò che conta: non la vittoria o la sconfitta di un movimento, ma la traccia che lascia nel tempo. Il Novecento Italiano ci parla ancora perché racconta il coraggio di chi, tra due guerre, cercò di dare forma al caos. E in quella forma, in quel gesto disciplinato e ardente, c’è tutta la potenza di un secolo che voleva ricominciare da sé stesso.



