Scopri il MONA, il museo che sfida ogni convenzione e trasforma l’arte in un’esperienza sensoriale e intellettuale unica, dove l’antico e il contemporaneo danzano in perfetta provocazione
A Hobart, in una tranquilla città australiana spesso ignorata dai riflettori internazionali, si cela un museo che non solo ridefinisce il concetto di arte, ma lo distrugge e lo ricostruisce con una forza provocatoria. Benvenuti al MONA – Museo di Old e New Art, un luogo dove l’antico confronta il contemporaneo in una danza intellettuale che scuote il visitatore fino al cuore.
- Cos’è il MONA e perché è unico?
- Una visione radicale: David Walsh e la filosofia dietro il museo
- L’esperienza del visitatore: tra incanto e inquietudine
- Le opere che definiscono MONA: immortali e scandalose
- Arte come provocazione: apprezzamenti e critiche
- L’eredità culturale di MONA: un futuro rivoluzionario
- Conclusione
Cos’è il MONA e perché è unico?
Il MONA non è un museo ordinario. È stato descritto come “il museo più controverso del mondo”, e con buon motivo. Fondato nel 2011 da David Walsh, eccentrico milionario e giocatore d’azzardo, il MONA si spinge oltre i confini dell’estetica tradizionale. Walsh lo ha definito “una Disneyland per adulti”, ma questa metafora è limitante: il MONA non propone intrattenimento banale, ma sfide intellettuali che vanno ben oltre il piacere visivo.
Situato in una rocca scavata lungo il fiume Derwent in Tasmania, l’architettura del museo invita i visitatori a scendere nel ventre della terra, quasi come un pellegrinaggio verso l’ignoto. L’atmosfera che avvolge il MONA è volutamente disorientante, con luci soffuse, corridoi labirintici e spazi progettati per far vacillare le certezze.
La collezione? Un mix audace di arte antica – sarcofagi egizi, monete romane, sculture classiche – e opere contemporanee che spingono i limiti dell’etica e dell’estetica. In questo spazio, il dialogo tra passato e presente è tanto intenso quanto caotico.
Una visione radicale: David Walsh e la filosofia dietro il museo
David Walsh non è un uomo qualunque. Nessun genio lo è. Cresciuto in Tasmania, ha costruito la sua fortuna attraverso sistemi matematici per il gioco d’azzardo, ma il vero rischio non lo ha corso nei casinò: lo ha corso nel mondo dell’arte. La sua visione per il MONA era chiara fin dall’inizio. Doveva essere uno spazio che sfidasse le convenzioni e dicesse la verità, ‘nuda e cruda’, su ciò che significa essere umani.
Walsh è cinico, disincantato, quasi nichilista. Nelle interviste, non nasconde la sua fascinazione per la mortalità, il sesso e il disgusto – temi centrali esplorati nel MONA. “L’arte deve creare disagio, non conforto”, ha dichiarato. E il MONA ci riesce splendidamente.
La tecnologia è al centro della sua rivoluzione. Al MONA non troverete didascalie accanto alle opere. Invece, i visitatori ricevono un dispositivo chiamato “O”, che offre interpretazioni personalizzate, informazioni tecniche e persino una visione umana sulle opere. La loro scelta: interagire o ignorare. Non c’è convenzione, solo caos creativo.
L’esperienza del visitatore: tra incanto e inquietudine
Entrare al MONA non è una visita come le altre. Dal momento in cui si sbarca sulla sua famosa chiatta (il modo iconico di raggiungere il museo), si capisce subito di essere in un luogo a parte. L’architettura stessa, ideata da Nonda Katsalidis, sembra divorare ogni visitatore. Invece di salire, si scende: tre piani sotterranei scavati nella roccia, quasi come un viaggio nel subconscio.
L’atmosfera è volutamente perturbante. Silenzio interrotto da performance occasionali, luci cupe, spazi che ad ogni angolo ti costringono a confrontarti con le tue paure, limiti e pulsioni. Non si tratta di uscire dal MONA con l’anima leggera: è un museo che ti mette davanti allo specchio, anche quando non vuoi guardarti.
Un esempio? La celebre “Macchina della digestione” (Cloaca di Wim Delvoye) è uno degli oggetti più famigerati del museo. Il dispositivo simula il tratto digestivo umano e produce autentici escrementi. È disgustoso, è grottesco, ed è arte. Tu, come visitatore, sei costretto a chiederti: cosa significa davvero il processo creativo? Da dove deriva l’arte e dove ci porta?
Le opere che definiscono MONA: immortali e scandalose
La collezione del MONA è vastissima, ma alcune opere emergono come simboli del suo spirito provocatorio. “Snake” di Sidney Nolan è una gigantesca installazione che si snoda per decine di metri, composta da oltre 1.600 pannelli che rappresentano, tra figura e astratto, un serpente mitico. Un richiamo alla cultura aborigena australiana? Forse. O forse no. Il MONA lascia che tu crei la tua versione.
Altro pezzo irrinunciabile è l'”Opera continua di Gregory Barsamian”. Una scultura animata che sembra viva, pulsante, eppure aliena. Chi la osserva viene trascinato in un vortice psichedelico che pare tradurre in arte il sogno e l’inconscio.
Ma è il concetto della “Macchina della Digestione” che attira e respinge. L’opera di Wim Delvoye è inequivocabilmente progettata per provocare: può essere disgustosa ma, allo stesso tempo, è una riflessione sull’umanità, sul corpo e sulla sua funzione più basilare.
Arte come provocazione: apprezzamenti e critiche
Il MONA divide l’opinione pubblica come pochi musei al mondo. Molti lo considerano un capolavoro di libertà creativa. Altri lo accusano di cercare solo lo scandalo. La verità, come sempre, è nel mezzo.
Per i sostenitori, il MONA è un laboratorio culturale che ha reso l’arte di nuovo necessaria. Ha restituito al pubblico la possibilità di discutere, indignarsi, meravigliarsi. Non è un museo da visitare in silenzio, ma da attraversare con il corpo e la mente.
I detrattori parlano invece di eccesso di provocazione e di culto della personalità attorno a Walsh. Tuttavia, anche questa polemica è parte del progetto: il MONA non vuole placare le discussioni, ma alimentarle. È un museo che vive di disaccordo.
C’è poi un tema più profondo: il rapporto tra collezione privata e bene pubblico. Il MONA è nato da una visione personale, ma il suo impatto è collettivo. È un museo che interroga i confini del potere culturale, chiedendo implicitamente: chi decide cosa merita di essere visto?
L’eredità culturale di MONA: un futuro rivoluzionario
In pochi anni, il MONA ha trasformato la Tasmania in un polo culturale internazionale. Ha cambiato il turismo, la percezione dell’arte e persino il linguaggio museale. È diventato un simbolo di rinascita e innovazione per una regione prima marginale.
Ma il suo lascito più importante è concettuale: il MONA ha ridefinito cosa può essere un museo nel XXI secolo. Non più un tempio silenzioso della bellezza, ma uno spazio dove il pubblico partecipa, discute, si mette in gioco.
Con nuove esposizioni, collaborazioni digitali e progetti multidisciplinari, il MONA continua a espandere la propria influenza. È un cantiere permanente di idee, dove l’arte serve a ridefinire la nostra percezione di realtà e limite.
Conclusione
Il MONA non cerca di piacere a tutti. È un museo che provoca, disturba e invita al pensiero critico. In un’epoca in cui tutto tende alla semplificazione, il MONA sceglie la complessità. Ti costringe a uscire con una domanda, non con una risposta.
Se cerchi un luogo dove l’arte consola, non è qui che lo troverai. Ma se vuoi un’esperienza che scuota le tue convinzioni e allarghi la tua idea di bellezza, allora il MONA è una destinazione obbligata. Non è solo un museo. È una dichiarazione di libertà intellettuale.
Per maggiori informazioni sul MONA, visita il sito ufficiale.



