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Arte Neo-Concreta in Brasile: Clark e Oiticica

Alla fine degli anni ’50, a Rio, due artisti osano rompere le regole del modernismo per trasformare l’arte in esperienza viva: con Clark e Oiticica, il Neo-Concretismo accende una rivoluzione del corpo, del colore e del sentire

Rio de Janeiro, fine anni ‘50. Il modernismo brasiliano pulsa di geometrie perfette, regole, progresso. Eppure, due artisti decidono di rompere tutto. Quello che accade da lì in avanti non è più pittura, né scultura. È esperienza pura, corpo, spazio, esistenza. È la nascita di un nuovo linguaggio capace di trasformare non solo l’arte, ma il modo stesso di percepire la vita nel tropico urbano di un paese in piena trasformazione.

Origini del Movimento Neo-Concreto

Il Brasile degli anni Cinquanta era un luogo di esplosione culturale e contraddizione. Da un lato, il sogno di crescita industriale incarnato nella costruzione di Brasília: una città nuova, perfettamente razionale, figlia di un’utopia modernista. Dall’altro, un popolo che cercava una forma d’arte capace di parlare non solo alla mente, ma anche ai sensi, al corpo, alla vita quotidiana. In questo terreno fertile nasce il Movimento Neo-Concreto, ufficializzato nel 1959 con il “Manifesto Neo-Concreto”, firmato da artisti come Lygia Clark, Hélio Oiticica, Lygia Pape e Ferreira Gullar.

Il Neo-Concretismo sorge come risposta diretta alla freddezza razionale del Concretismo. Se quest’ultimo, influenzato dal Bauhaus e dal costruttivismo europeo, vedeva l’arte come un linguaggio oggettivo e universale, il nuovo gruppo brasiliano ribalta la prospettiva. L’arte non è più oggetto, ma organismo vivente. Non rappresenta il mondo, ma lo genera, lo interroga, lo sconvolge.

Ferreira Gullar, poeta e teorico del movimento, scriverà: “L’opera d’arte è un essere quasi-corporeo, una creazione che esiste in un universo autonomo, ma che ha bisogno del nostro corpo per vivere.” La frase è chiave per comprendere tutto ciò che faranno Clark e Oiticica: porre il corpo umano al centro dell’esperienza estetica. Un corpo non più spettatore, ma protagonista attivo dell’opera.

Non più tela né scultura, ma spazio, gesto, partecipazione. È in questo clima elettrico che Lygia Clark e Hélio Oiticica si muovono come due poli di un campo magnetico irripetibile.

Lygia Clark: Il corpo come strumento di libertà

Lygia Clark è una figura di intensità difficilmente descrivibile. Nata a Belo Horizonte nel 1920, si forma a Parigi negli anni Quaranta, accanto a Fernand Léger. Ma la sua vocazione non è quella di seguire un maestro: vuole spezzare la cornice stessa del quadro. Tornata in Brasile, entra nel gruppo dei concretisti di Rio, ma presto li abbandona per abbracciare una visione tutta sua: l’arte come atto vitale.

Nel 1959 realizza le sue prime Bichos (letteralmente “animali”), strutture metalliche articolate che lo spettatore può manipolare. Le superfici si piegano, mutano, reagiscono: non esiste una forma definitiva. Clark scrive che il Bicho “non è un oggetto, ma un essere che ci risponde.” La scultura, dunque, non vive più senza l’intervento umano. Il confine tra opera e spettatore crolla, e l’arte diventa “esperienza fenomenologica”.

In un celebre testo del 1963, Clark dichiara: “L’opera non è più un fine, ma un mezzo per entrare in contatto con se stessi.” In altre parole, l’esperienza estetica diventa un viaggio interiore. Nei suoi lavori successivi, come gli Objetos relacionais, l’artista impiega sacchetti di plastica, pietre, conchiglie, elastici, nastri. Chiede ai partecipanti di toccarli, sentirli sulla pelle, metterli sul viso, respirare con essi. L’arte si trasforma in terapia, rito, contatto sensoriale e psichico.

Clark considera il corpo come la vera frontiera della libertà. Il museo, secondo lei, deve diventare uno spazio di percezione condivisa, non un tempio elitario. La sua posizione anticipa di decenni l’arte relazionale degli anni Novanta e i discorsi contemporanei sulla performatività. Secondo il Museum of Modern Art di New York, la forza pionieristica di Clark risiede proprio nell’aver trasformato la relazione fra opera e pubblico in un corpo unico, fluido e irriducibile a categorie.

La domanda, ancora oggi, rimane bruciante:
L’arte può davvero guarire? O è solo un’altra forma di illusione condivisa?
Clark non avrebbe mai dato una risposta definitiva. Per lei, l’arte doveva restare una zona di rischio, un campo aperto dove tutto può succedere.

Hélio Oiticica: Il colore incarnato e la rivolta sensoriale

Se Clark porta il corpo dentro l’opera, Hélio Oiticica porta l’opera fuori dal museo. Nato a Rio de Janeiro nel 1937, entra giovanissimo nel gruppo dei concretisti carioca, ma ben presto si ribella alla loro purezza formale. I suoi primi lavori, le serie Metaesquemas, sono ancora geometrici, ma già pulsano di una tensione anarchica. Nel 1959, con l’affermazione del Neo-Concretismo, Oiticica trova la sua tribù spirituale.

Eppure, è solo all’inizio. Dalla geometria passa al colore come ambiente, come spazio totale. I Penetráveis sono strutture abitabili, labirintiche, che invitano il pubblico a camminare, entrare, respirare il colore. Non più osservatori, ma partecipanti. Oiticica scrive: “Io non voglio che l’arte sia un’idea da guardare. Voglio che sia qualcosa da vivere.”

Il passo successivo è folgorante: nel 1964 crea i Parangolés, mantelli di tessuto multicolore ispirati alle sfilate delle favelas e alle scuole di samba di Rio. Vengono indossati dai danzatori della Mangueira, la celebre comunità di samba. Ogni Parangolé è movimento, ritmo, protesta. Quando Oiticica tenta di presentarli al Museo d’Arte Moderna di Rio, i ballerini vengono fermati all’ingresso: “Non potete entrare, non siete parte dell’opera.” Quell’atto di esclusione si trasforma, per Oiticica, nella prova che il museo tradizionale è morto.

Il colore, per lui, non è più superficie ma energia sensoriale e sociale. L’arte si confonde con la vita, e la vita stessa diventa atto estetico. “Se vuoi essere libero,” scrive, “devi creare il tuo proprio mondo.” Il mondo di Oiticica è fatto di sabbia, plastica, musica, corpo, desiderio. È l’utopia tropicale dell’autonomia creativa, un’arte che scardina la distinzione fra artista e pubblico, tra alta cultura e cultura di strada.

Negli anni Settanta, durante il suo soggiorno a New York, Oiticica elabora la nozione di “suprasensoriale”: un’esperienza che cancella le barriere tra interno ed esterno, materia e spirito. In questo senso, egli anticipa molte pratiche immersive contemporanee e i linguaggi dell’arte partecipativa. Tuttavia, rimane sempre fedele alla sua radice brasiliana, quella di una libertà costruita nell’attrito continuo tra gioia e precarietà.

Clark e Oiticica non furono mai un duo armonioso: furono piuttosto due entità orbitanti nello stesso campo gravitazionale, unite da un’urgenza comune e da conflitti identitari. Lei, più introspettiva, meditativa, legata al corpo e alla psiche; lui, esplosivo, politico, immerso nella vitalità collettiva. Eppure, entrambi miravano allo stesso obiettivo: abbattere la distanza fra arte e vita.

Il loro dialogo si sviluppa attraverso lettere, mostre, discussioni e divergenze teoriche. Entrambi condividono la visione di un’arte che non possa essere venduta o posseduta. L’arte, secondo loro, deve essere un atto di libertà irriducibile, non un prodotto. È un concetto radicale, e per questo spesso incompreso. Durante gli anni Sessanta, il Brasile entra in un periodo di dittatura militare. Le loro opere, pur non apertamente politiche, diventano simbolicamente sovversive: rivendicano l’autonomia del corpo e della creatività contro ogni controllo.

Per Clark, l’opera è una protesi sensoriale; per Oiticica, è un atto di trasgressione. Ma alla base vi è la stessa fede nella partecipazione. L’opera non esiste senza chi la vive. In un certo senso, il Neo-Concretismo prefigura la filosofia dei social media e dell’arte interattiva: l’autore si dissolve, e il pubblico diventa co-creatore.

Allora, la domanda oggi è inevitabile:
Quanta libertà siamo disposti a concedere all’esperienza estetica?
In un’epoca in cui tutto è spettacolo, la loro lezione resta scomoda: la libertà non è intrattenimento, ma rischio. E il rischio, nel loro linguaggio, è la vera materia dell’arte.

L’eredità contemporanea: dal museo alla strada

Le idee di Clark e Oiticica hanno avuto una risonanza globale, ma la loro eredità più autentica risiede nella capacità di contaminare. Tra gli anni Ottanta e Duemila, artisti brasiliani come Ernesto Neto e Rivane Neuenschwander hanno ripreso la dimensione sensoriale e partecipativa introdotta dai Neo-Concreti, riportandola nei contesti museali internazionali. Tuttavia, la vera influenza di Clark e Oiticica si sente anche nelle installazioni immersive, nelle performance rituali e persino nei festival di arte urbana.

In molte città brasiliane, murales, danza e performance pubbliche dialogano inconsciamente con i principi del Neo-Concretismo: la partecipazione, la libertà del corpo, la dissoluzione delle barriere tra arte e vita quotidiana. L’arte non è più solo ciò che accade in un museo, ma ciò che si vive camminando per strada. In questo senso, l’estetica neo-concreta diventa un linguaggio sociale, un modo di respirare il mondo.

Le istituzioni, che un tempo avevano respinto i Parangolés di Oiticica alla porta, oggi ne celebrano la potenza. Esposizioni retrospettive negli Stati Uniti, in Francia e in Inghilterra mostrano come le sue idee abbiano anticipato forme d’arte esperienziale che dominano il XXI secolo. Ma la vera sfida resta la stessa: come mantenere viva quella tensione originaria, quel fuoco anarchico?

Clark, morta nel 1988, ha lasciato dietro di sé un’eredità spirituale e terapeutica che continua a ispirare artisti contemporanei, psicoterapeuti e performer. Oiticica, scomparso prematuramente nel 1980, incarna la visione di un’arte come atto totale. Entrambi rifiutavano la passività. Oggi, in un’epoca di saturazione visiva, la loro voce torna a risuonare con urgenza: l’arte non deve essere vista, ma vissuta.

L’arte come destino

È impossibile guardare all’Arte Neo-Concreta senza sentire un brivido di provocazione. Clark e Oiticica non volevano solo cambiare l’arte, volevano cambiare lo stato dell’essere. Le loro opere non offrono conforto: spiazzano, chiedono una risposta, esigono presenza. In un mondo dominato da schermi e simulazioni, la loro ossessione per il corpo e per il contatto diretto appare come un manifesto di resistenza poetica.

La loro eredità non è fatta di oggetti da collezione, ma di gesti, di prossimità, di vibrazioni. Ogni volta che un artista invita il pubblico a toccare, a muoversi, a partecipare, un frammento di Clark o di Oiticica si accende di nuovo. Sono i fantasmi luminosi di un’epoca che ha creduto nella rivoluzione sensoriale.

L’Arte Neo-Concreta non è mai finita. Vive ogni volta che qualcuno osa trasformare lo spazio in esperienza, il colore in energia, la materia in gesto. Forse, in fondo, il destino dell’arte è proprio questo: tornare sempre al corpo, come alla sua sorgente naturale. Lì dove il pensiero cede il passo al ritmo, e il ritmo diventa libertà.

Perché la libertà, nell’arte come nella vita, non si contempla: si abita.

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