Negli anni ’60, tra Milano e Padova, la luce e il movimento divennero strumenti di rivoluzione: Gruppo T e Gruppo N trasformarono l’arte italiana in un’esperienza viva, collettiva e sorprendentemente attuale
È possibile che la luce, un semplice fascio di energia, possa trasformarsi in rivoluzione? Che il movimento di una forma geometrica diventi un gesto politico? Negli anni Sessanta, tra Milano e Padova, alcuni giovani artisti italiani si posero proprio questa domanda — e cambiarono per sempre il linguaggio dell’arte europea.
- Le origini: un’Italia pronta a muoversi
- Gruppo T: il tempo come materia viva
- Gruppo N: la rivoluzione ottica di Padova
- Dialoghi, scontri e convergenze
- La critica, le istituzioni e la sfida al “bello”
- L’eredità luminosa del movimento cinetico
Le origini: un’Italia pronta a muoversi
Alla fine degli anni Cinquanta, l’Italia non era solo un Paese che rialzava la testa dopo la guerra; era un laboratorio di vita nuova. Le strade pullulavano di Vespe, i televisori portavano il bianco e nero nelle case, e l’industria del design cominciava a esplorare linguaggi che rompevano la staticità del passato. Milano, Torino, Padova: tutto vibrava di un ottimismo febbrile, e l’arte cercava il suo modo di raccontare quella pulsazione.
In questo contesto nacquero i movimenti dell’arte cinetica e programmata. Non si trattava solo di “quadri che si muovono” o di giochi visivi. Era la volontà, quasi utopica, di cancellare il confine tra spettatore e opera, tra statico e dinamico. Per questi giovani autori, l’opera non doveva più essere rappresentazione, ma esperienza.
L’Italia si inseriva così in un dialogo internazionale che attraversava Parigi, Düsseldorf, Londra, New York: esponenti del Op Art e del Kinetic Art, come Jesús Rafael Soto, Victor Vasarely o Bridget Riley, si muovevano sulla stessa lunghezza d’onda. Ma nel caso italiano, la componente concettuale e collettiva divenne un segno distintivo. Il lavoro di gruppo sostituiva l’individualismo, l’idea prevaleva sulla firma, il laboratorio diventava più importante dello studio personale.
In pochi anni, due nuclei principali si imposero come fari di questa rivoluzione: Gruppo T a Milano e Gruppo N a Padova. Entrambi fondati da giovanissimi artisti, entrambi decisi a scardinare il concetto stesso di arte come oggetto statico. Entrambi radicali nel credere che il futuro dovesse essere partecipato.
Gruppo T: il tempo come materia viva
Nel 1959, a Milano, cinque giovani — Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gianni Colombo, Gabriele De Vecchi e Grazia Varisco — si riunirono attorno a un’idea che sembrava semplice, quasi ingenua: far muovere l’arte. In realtà, dietro questa formula si nascondeva una rivoluzione estetica e percettiva profonda.
Il nome “Gruppo T” non era scelto a caso: la “T” stava per “tempo”, la nuova variabile che entrava prepotentemente nella composizione artistica. La pittura si piegava al ritmo, la scultura diventava scenario di mutazioni, la luce stessa si faceva attore. Da allora, quello che un tempo era il dominio dell’artigiano diventava esperimento scientifico, aperto, imprevedibile.
Le prime mostre del Gruppo T si svolsero in spazi non convenzionali, spesso arredati con strumenti motorizzati, luci pulsanti, superfici cangianti. Le opere non erano pensate per essere osservate, ma attivate. Lo spettatore, per la prima volta, diventava parte integrante del sistema. Senza di lui, l’opera non esisteva davvero.
Tra i lavori più celebri di questo periodo figura Superficie magnetica di Davide Boriani, un campo di limatura di ferro messa in moto da magneti invisibili che ne mutano dinamicamente il disegno. Oppure Strutturazione cinevisuale ambiente di Gianni Colombo, un ambiente immersivo del 1960 in cui la percezione spaziale viene messa alla prova da luci e vibrazioni. È qui che si compie il salto: l’arte smette di rappresentare il mondo per diventare esperienza sensoriale del mondo stesso.
Non è un caso che alcune opere del Gruppo T siano oggi custodite in collezioni internazionali e musei del calibro del Museum of Modern Art di New York, segno che quell’“avanguardia meccanica” italiana non è mai stata solo un episodio locale, ma un capitolo della modernità globale.
Gruppo N: la rivoluzione ottica di Padova
Quasi in contemporanea, nel 1959, a Padova, un altro gruppo di giovani artisti — Alberto Biasi, Ennio Chiggio, Edoardo Landi, Manfredo Massironi e Giovanni Anceschi (per un breve periodo, prima di tornare al T milanese) — fondava Gruppo N. Se il Gruppo T agiva sul piano fisico e temporale, il Gruppo N interveniva direttamente sulla percezione.
Il loro nome — “N” come “numero”, “neutralità”, “nuovo” — evocava un’idea di arte oggettiva, spogliata d’espressione personale. L’opera diventava un dispositivo ottico, un algoritmo di forme e colori capace di alterare la visione stessa. Qui il tempo non era il soggetto, ma la percezione temporanea dell’occhio, la vibrazione ottica che costringe lo spettatore a dubitare di ciò che vede.
Biasi, in particolare, realizzò opere in cui il piano bidimensionale si trasformava in tessuto tridimensionale; superfici di acetato, plastica e rete venivano sovrapposte creando illusioni di pulsazione e movimento. Trame (1960) o Politipo (1964) non chiedono di essere “lette” ma di essere vissute. L’immagine è instabile, il colore muta, la profondità si dissolve.
Il Gruppo N portò avanti anche un’intensa attività teorica e collettiva. Manifesti, dichiarazioni, articoli programmatici: tutto contribuiva a elaborare una visione comune in cui l’artista si faceva designer, programmatore, analista della percezione. Essi rifiutavano il culto dell’autore genio, spostando l’attenzione sul processo e sulla ricerca, in sintonia con le tensioni sociali e politiche del decennio.
Che senso ha l’arte se non cambia lo sguardo di chi la osserva? Con questa domanda implicita, i padovani del Gruppo N demolirono l’idea di quadro come finestra sul mondo, invitando lo spettatore dentro la finestra stessa.
Dialoghi, scontri e convergenze
Anche se Gruppo T e Gruppo N nacquero in città diverse, le loro strade si intrecciarono presto. I contatti frequenti, le esposizioni comuni, ma anche le divergenze metodologiche trasformarono questa relazione in uno degli scambi più fertili dell’arte italiana del dopoguerra.
Nel 1962, la mostra Arte programmata, organizzata da Bruno Munari e Giorgio Soavi per la Olivetti, rappresentò un punto di contatto fondamentale. Esposizione itinerante presentata prima a Venezia, poi a Roma e Düsseldorf, essa riuniva lavori del Gruppo T, del Gruppo N e di altri protagonisti dell’arte cinetica europea. Il concetto al centro era chiaro: l’arte come risultato di un programma, non di un’ispirazione romantica.
Le divergenze fecero emergere la ricchezza del movimento: il Gruppo T lavorava con dispositivi che modificavano lo spazio e il tempo in maniera quasi teatrale, mentre il Gruppo N costruiva sequenze ottiche e matematiche di estrema precisione. Da un lato l’esperienza fisica, dall’altro quella mentale. Due poli che, come positivo e negativo, producevano scintille creative.
Ma queste differenze non li divisero: al contrario, li unirono contro un nemico comune — l’accademismo e il mercato che riducevano l’arte a feticcio. Ogni installazione diventava un grido di ribellione contro la staticità culturale. Il pubblico non era più osservatore, ma parte attiva del linguaggio artistico. L’opera assumeva un valore egualitario, aperto, democratico: chiunque poteva generare significato attraverso la propria esperienza.
La critica, le istituzioni e la sfida al “bello”
All’epoca, la ricezione critica non fu unanime. Se da un lato figure aperte come Germano Celant (che pochi anni dopo conierà il termine “Arte Povera”) intuirono la portata rivoluzionaria dell’approccio cinetico, altri osservatori considerarono quelle ricerche come “ginnastiche percettive”, mancanza di contenuto emotivo o “giochi per ingegneri”. Ma forse era proprio questo l’intento: scollegare l’arte dal sentimentalismo e riportarla all’intelligenza sensoriale del fare.
Molti musei italiani stentarono a dare spazio a questi esperimenti, ritenuti troppo industriali, troppo freddi. Ma le istituzioni internazionali, come la Biennale di Venezia o documenta a Kassel, cominciarono presto a includerli nei propri programmi. L’Italia, per una volta, non rincorreva la modernità estera: la dettava.
In parallelo, la Olivetti giocò un ruolo sorprendente. Sostenendo mostre e pubblicazioni legate all’arte programmata, dimostrò come la sinergia tra design, industria e sperimentazione potesse generare un’estetica nuova, fondata sulla tecnologia come linguaggio. In fondo, le macchine che producevano i ritmi visivi del Gruppo T o N erano parenti strette delle invenzioni che ogni giorno rivoluzionavano la vita nelle fabbriche e negli uffici.
Si trattava di un’arte che non voleva essere “bella” nel senso classico. Voleva essere attiva, intelligente, partecipata. E in questo, anticipò molte delle questioni dell’arte contemporanea: la realtà aumentata, l’interattività digitale, l’arte immersiva. Lì, tra luci stroboscopiche e motori elettrici, si gettavano i semi del nostro presente visivo.
L’eredità luminosa del movimento cinetico
Oggi, a sessant’anni di distanza, le opere del Gruppo T e del Gruppo N continuano a pulsare come organismi vivi. Entrambe le esperienze hanno lasciato un’impronta che va ben oltre le sale dei musei: hanno cambiato il modo in cui pensiamo il rapporto tra corpo, spazio e percezione.
Il principio di interattività, che oggi ci appare ovvio in mostre digitali o installazioni immersive, nasce proprio da quella stagione. Ogni click, ogni sensore, ogni reazione del pubblico contemporaneo è una lontana eco dei dispositivi che Colombo o Biasi mettevano in moto nei loro ambienti.
Ma c’è qualcosa di più intimo e poetico: quella tensione verso il movimento era, e resta, una metafora della vita. In un’Italia che si spostava dal contadino all’operaio, dal silenzio alla comunicazione di massa, il movimento non era un semplice effetto ottico, ma una metafora del cambiamento sociale. Le figure che vibrano, le superfici che si dissolvono, i colori che si confondono — tutto parlava dell’instabilità del mondo moderno, del suo eterno mutare.
Non è forse questa la vera essenza dell’arte? Mostrare che nulla è immobile, che anche la forma più ferma contiene una pulsazione invisibile, che vedere è sempre un atto di interpretazione, di partecipazione, di vita.
Se oggi attraversiamo le sale dedicate a Gruppo T e Gruppo N, se ci lasciamo avvolgere dalle loro superfici luminose, capiamo che non stiamo guardando “il passato” — stiamo osservando il momento in cui il futuro ha cominciato a muoversi.
Quell’energia continua a parlarci, a ricordarci che ogni visione può ancora cambiare la forma del mondo. E che l’arte, quando davvero si muove, muove anche noi.



