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Number 1A di Jackson Pollock

Number 1A di Jackson Pollock: l’arte dell’azione

Immaginate una tela di oltre due metri che non offre un punto di quiete, un cielo né un orizzonte. Solo una fitta rete di gesti, gocciolature e vortici di colore che paiono ancora vibrare, come se la pittura non fosse cessata un secondo fa. È qui, nel caos orchestrato di “Number 1A, 1948”, che l’arte cambia per sempre linguaggio.

Dalla nascita dell’“action painting”

Alla fine degli anni Quaranta, l’arte americana cerca ancora un’identità. L’Europa è devastata dalla guerra, e Parigi non è più il centro indiscusso della modernità. New York scalpita per conquistare la scena internazionale, e in un fienile di Long Island un uomo solitario prepara la deflagrazione che sancirà quell’ascesa: Jackson Pollock.

Number 1A (1948) non è semplicemente un titolo; è un manifesto. Pollock rifiuta la figura, la prospettiva, l’illusione. Sul pavimento, con la tela distesa, inizia un dialogo fisico con la materia. Versando, lanciando, gocciolando pittura, egli non rappresenta più il mondo: lo mette in atto. È il gesto, non il soggetto, a diventare contenuto artistico.

Questa trasformazione, definita dall’allora critico Harold Rosenberg “action painting”, ridefinisce il ruolo dell’artista come performer del proprio inconscio. Non si tratta più di dipingere un oggetto, ma di registrare un’azione. Ogni linea, ogni spruzzo porta la traccia immediata di un corpo in movimento. È pittura e danza, trance e decisione, caos e controllo.

La superficie di “Number 1A” è un magma di smalti, alluminio, marroni e bianchi lattiginosi. La pittura non si stende ma si accumula, si annoda, respira. Se ci si avvicina, si percepisce la casualità matematica dei fili di colore: una geometria emozionale costruita sull’imprevisto. Non ci sono pentimenti, ma continuità, un ritmo profondo che attraversa lo spazio come una partitura improvvisata.

Nel cuore dello studio di Pollock

Per comprendere “Number 1A” bisogna entrare nello studio di Pollock a Springs, Long Island, oggi conservato come museo e testimone silenzioso di quella rivoluzione. È un luogo essenziale, ruvido, con il pavimento coperto di macchie multicolori, testimonianze delle gocciolature e degli slanci incontrollati dell’artista. Qui, Pollock lavora ascoltando jazz: Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Be-Bop. Il ritmo sincopato diventa gesto pittorico.

Non è un caso che la pittura di Pollock nasca dal corpo. La danza dei suoi movimenti sembra rispondere a un impulso interno, quasi rituale. Si muove intorno alla tela come uno sciamano contemporaneo, lasciando che le leggi della gravità e del tempo costruiscano la forma al posto suo. In questo modo l’artista disinnesca la centralità dell’occhio e restituisce all’opera una dimensione fisica e temporale.

Come affermano le note del Museum of Modern Art, Pollock “trattava la superficie come un campo aperto, in cui nessuna parte è più importante di un’altra”. È una concezione radicale, che anticipa le installazioni ambientali e il minimalismo, prefigurando un’idea di arte come esperienza totalizzante, non più confinata in un perimetro visivo.

Che cosa succede, allora, quando la pittura diventa movimento, quando il tempo entra nella tela? Succede che l’oggetto artistico non è più un’immagine, ma un evento. “Number 1A” non si guarda: si attraversa con lo sguardo, si abita mentalmente. È come ascoltare un concerto che non finisce mai, dove ogni linea di colore suona una nota di libertà.

L’America che cambia: la rivoluzione del gesto

Negli anni in cui Pollock stende le sue tele in fienile, l’America sta costruendo la propria mitologia. Hollywood crea eroi, le highways attraversano continenti, i grattacieli dominano il cielo: l’epopea della potenza moderna. Pollock rappresenta, nel linguaggio pittorico, la stessa irriverente energia. È il simbolo di una nazione che non accetta regole preesistenti e preferisce riscrivere il gioco da capo.

La pittura europea, con la sua storia di tecniche e scuole, appare improvvisamente anacronistica. Invece di un cavalletto, Pollock usa il pavimento; invece di un pennello, una stecca o una siringa di colore. È l’industrializzazione del gesto, la libertà del corpo americano che si fa segno.

In “Number 1A”, questa rivoluzione è compiuta: il colore viene versato come lava su una superficie informe, generando un equilibrio che solo in apparenza è casuale. Le colature nere, bianche e argentate creano un tessuto energetico in cui si mescolano impulsi viscerali e logiche inconsapevoli, simili alle reti neurali di un cervello in tensione creativa.

Gli osservatori dell’epoca restano spiazzati. Qual è il soggetto? Dove comincia e dove finisce l’opera? E, soprattutto, che cosa rappresenta questo mare di segni? Pollock risponde con un silenzio eloquente: “Io sono la natura”, dichiara. È la natura stessa – quella atomica, frammentata, postbellica – che prende forma nel ritmo caotico della tela.

La critica, lo scandalo e la consacrazione

Quando nel 1949 Pollock espone alla galleria Betty Parsons di New York, la reazione è feroce e contraddittoria. C’è chi lo definisce un genio e chi un impostore. La rivista Life gli dedica una copertina con la domanda retorica: “È il più grande pittore vivente degli Stati Uniti?” Una domanda sospesa tra ammirazione e ironia, simbolo della tensione che l’artista suscita nell’immaginario americano.

“Number 1A” diventa emblema di quella controversia. Alcuni critici leggono nella sua trama apparentemente caotica un richiamo alla psicanalisi junghiana, agli archetipi nascosti. Altri vedono soltanto un eccesso di spontaneità. Ma proprio in questa ambiguità risiede la forza di Pollock: il suo lavoro sfugge a ogni classificazione, obbliga lo spettatore a una partecipazione emotiva immediata, senza appigli narrativi.

Non è casuale che critici come Clement Greenberg vedessero in Pollock l’evoluzione più coerente del modernismo pittorico: la riduzione dell’arte ai suoi elementi essenziali – colore, superficie, gesto. Pollock diventa così il prototipo dell’artista moderno, ma anche la sua vittima: esposto, vulnerabile, divorato dal proprio mito.

Il suo gesto fa paura perché elimina il confine tra arte e vita. Quando Pollock lancia il colore sulla tela, si lancia egli stesso nel vuoto di un linguaggio senza precedenti. Ogni quadro è un rischio, una rottura, una confessione. E “Number 1A” è la sua confessione più pura, la dimostrazione che la bellezza può nascere anche dal disordine più assoluto.

L’eredità: quando il corpo diventa pennello

Pollock muore nel 1956 in un incidente d’auto, lasciando dietro di sé un’eredità che ancora oggi definisce i confini dell’arte contemporanea. Ma la vera sopravvivenza del suo gesto non è tanto nelle tele quanto nell’atteggiamento che ha trasmesso: il coraggio di perdere il controllo.

“Number 1A” non è più solo un dipinto; è un modo di pensare. Ha aperto la strada alle performance di Allan Kaprow, alle body art degli anni Sessanta, all’arte concettuale che vede nell’atto creativo un processo e non un oggetto finito. In questo senso, Pollock è meno un pittore e più un generatore di linguaggi.

L’artista diventa il luogo dell’opera. Il suo movimento, la sua energia, la sua presenza fisica costituiscono l’essenza della creazione. Non si tratta di decorare il mondo, ma di entrarci dentro, di amplificarne le vibrazioni. “Number 1A” è, a suo modo, un campo di battaglia: la vittoria del corpo sul canone, della libertà sull’ordine.

Oggi, guardando quella tela conservata al MoMA di New York, si percepisce ancora un senso di urgenza. Nessuna parte dell’opera è tranquilla, nessun punto resta fermo. È come se la pittura respirasse con noi, continuando il dialogo aperto da Pollock più di settant’anni fa.

Il silenzio dopo l’azione

Forse il lascito più potente di “Number 1A” è la consapevolezza che l’arte può essere azione pura, senza compromessi. Pollock non cerca approvazione, non dimostra padronanza: affronta la tela come si affronta un mistero. Ogni segno è un atto di fede nel potere del gesto umano di generare senso nel caos.

In tempi in cui l’immagine digitale appare sterile e priva di peso, la fisicità di Pollock torna a ricordarci che l’arte è corpo, rischio, tempo reale. Guardare “Number 1A” non è un atto contemplativo ma partecipativo; è sentire nel proprio sangue la pulsazione stessa dell’universo che si organizza e si disfa.

Da allora, nessuno ha più potuto ignorare questo salto nel vuoto. Ogni artista che osa spingersi oltre la superficie – che sia con la materia, il suono o la luce – deve qualcosa a quell’uomo che, in un fienile di Long Island, trasformò la pittura in un evento. E forse è proprio lì che l’arte contemporanea ha smesso di rappresentare il mondo per iniziare ad esserlo.

“Number 1A” rimane così una soglia, un punto d’inizio eterno: il momento in cui la pittura imparò a muoversi, e il silenzio dopo l’azione divenne la sua più profonda eco.

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